Maccastorna, piccolo borgo incastonato tra le anse dell’Adda e le distese di pioppeti e prati del basso Lodigiano, negli anni ’30 del Novecento era un luogo che, più di altri, seppe raccontare la grande storia della caccia con il bracco italiano e non solo.
Qui, tra i canali e le golene, si svolgevano battute che non erano semplici uscite venatorie, ma autentici riti di un mondo contadino e nobiliare che viveva in profonda simbiosi con la natura.
La quiete di Maccastorna, rotta solo dal lento scorrere dell’Adda, accoglieva i cacciatori già prima dell’alba. I bracchi italiani – figli di genealogie orgogliose come i “di Regona”, “Dell’Adda”, “di Cornovecchio”, “Dei Ronchi” – venivano fatti scendere dai carri o dalle vecchie automobili, e con passo elegante si avviavano verso le stoppie e i prati inondati di brina. Erano cani temprati dalla vera caccia, nati per la ferma e il riporto, e a Maccastorna trovavano terreni generosi dove esprimere tutta la loro classe.
La caccia iniziava sempre con un momento di raccoglimento e di attesa: i cacciatori, in cappotti di panno e stivali alti, osservavano il campo, mentre i bracchi prendevano confidenza col terreno, annusando l’aria carica di umidità. Poi, quando il primo frullo rompeva la calma, partiva un susseguirsi di emozioni: le ferme lunghe e silenziose, i colpi secchi delle doppiette e, infine, il bracco che riportava, fiero e con passo composto, la preda nelle mani del padrone.









Era una caccia spesso condivisa tra pochi amici, a volte ospiti di qualche cascina nei dintorni o di piccole osterie che, a fine giornata, offrivano bicchieri di ottimo vino e piatti di cacciagione. Ma erano anche giornate in cui si parlava di genealogie, si confrontavano esperienze, si giudicavano soggetti (e la giuria era sempre importante basti vedere la foto con l’avvocato Rombo assistito da Giulio Colombo) e si programmavano nuove cucciolate: Maccastorna era un piccolo crocevia per i braccofili di tutta la regione e lo rimase a lungo negli anni.
Tra questi appassionati si annoveravano il Cav. Antonio Cattaneo (affisso “di Cornovecchio), con i suoi bracchi allevati in zona, e i Biancardi, proprietari della Rocca di Maccastorna. Non mancava mai Carlo Silva, figlio del Cav. Francesco Silva (affisso “di Regona”) e il marchese Idelfonso Stanga (sì, proprio lui, quello citato nella storia dei bracchi Ranza) che dalla sua villa di campagna a Crotta d’Adda attraversava il fiume per unirsi alle battute. E mentre la caccia era il cuore pulsante di queste uscite, sullo sfondo restava la Rocca, custode di secoli di storia e mistero, dalle prime tracce longobarde ai fasti medievali e alle cupe leggende legate al “Pozzo delle Spade”.
È quindi con grande piacere che vi mostriamo i nostri recenti ritrovamenti fotografici, che ben descrivono la bellezza di quei momenti: bracchi esperti, cacciatori eleganti e fieri, i fucili ben tenuti e le cartucciere di cuoio segnate dal tempo. Scorci d’acqua e di cielo, pioppi e campi umidi che sono la vera anima di questo territorio.
Maccastorna, negli anni ’30, era questo: un paesino sospeso tra la terra e il fiume, dove la caccia col bracco italiano diventava una poesia di gesti lenti e antichi, una celebrazione dell’armonia tra uomo, cane e paesaggio.
Oggi, osservando quelle immagini, possiamo ancora sentire l’eco di quelle storie, come un sussurro portato dall’Adda: la memoria viva di un’epoca che, pur lontana, resta intatta nella sua bellezza.
FOTO ARCHIVIO FRANCESCO GRANATA – PROPRIETÀ RISERVATA