caccia alpina

Il bracco italiano nella caccia alpina

Il bracco italiano e la caccia alpina, un connubio troppo spesso male interpretato

È opinione diffusa presso la maggior parte dei cacciatori che i nostri bracchi italiani, ottimi sui beccaccini, quaglie e fagiani, siano assolutamente inadatti alla caccia alpina dove non sarebbero in grado di svolgere una cerca utile. Niente di più errato.

Sia ben chiaro che in queste note sulla caccia alpina mi riferisco al vero bracco italiano come ci viene mirabilmente descritto nello standard del lavoro: cane dall’andatura vivace di trotto lungo e serrato che gli consente una cerca ampia su diagonali lunghe cento e più metri. Di tali ottimi soggetti, che nella maggior parte sono di media taglia, oggi fortunatamente se ne trovano molti in circolazione e potrei farne un lungo elenco.

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Anni ’60. Giuseppe Ricci con Pedro al riporto di un gallo forcello

Le ragioni per scegliere il bracco nella caccia alpina

Fatta questa debita premessa vediamo di esaminare quali sono le ragioni per cui ritengo la razza bracco tanto valida e redditizia nella caccia di montagna. Una delle principali qualità che deve avere il cane da montagna è il fondo. L’ampiezza delle zone da esplorare, la scarsità della selvaggina, le lunghe e faticose marce per raggiungere i luoghi di caccia, la tenacia propria del vero cacciatore di montagna che cammina per ore ed ore senza mai fermarsi c’impongono l’uso di un cane oltremodo robusto che abbia grandi doti di resistenza alla fatica e sappia dosare le proprie energie.

Il fisico

Il bracco italiano risponde appieno a questa esigenza; l’ampia cassa toracica, la forte conformazione del tronco e degli arti ne fanno un cane adatto a cacciare per intere giornate. Si aggiunga a tutto questo l’indole calma del trottatore che gli permette di dosare le forze a tutto vantaggio della resistenza sulle lunghe distanze.

Si dice che abbia il piede delicato, ma confesso di non avere mai riscontrato questo difetto nei miei cani che cacciano anche per diversi giorni consecutivi su terreni quantomai aspri e sassosi. Del resto è ovvio che in virtù della cerca ordinata, senza corse pazze ed improvvise virate, i cuscinetti plantari sono meno sollecitati che nei cani di altre più focose e veloci; il piede inoltre è piuttosto grande, proporzionato alle dimensioni corporee.

Giuseppe Ricci
Giuseppe Ricci con Pedro, un grande interprete della caccia alpina.

La resistenza

I patiti della coturnice e della pernice bianca sanno cosa significhi cacciare nelle limpide giornate di settembre sugli assolati versanti esposti a mezzogiorno. Il calore che irradiano le rocce quando il sole è allo zenit induce spesso il cacciatore a desistere dalla sua attività proprio nelle ore in cui la selvaggina sta tranquilla a spollinarsi e regge bene la ferma, e anche il povero cane non si preoccupa d’altro che di cercare una zona d’ombra o una eventuale sorgente per rinfrescarsi.  In queste condizioni non mi fu mai dato di vedere un ausiliare di qualsiasi razza da ferma svolgere una cerca dinamica. Il bracco italiano non fa eccezione alla regola, ma anche in questi frangenti rimane sempre vigile e pronto a rendersi utile al padrone.

Il ricordo di Gea delle Forre nella caccia alpina

Per di mostrare la verità di quanto ho asserito voglio rievocare un episodio di caccia vissuto un paio d’anni fa mentre mi trovavo in una riserva comunale del Trentino. Volevo incarnierare ad ogni costo qualche coturnice e decisi di esplorare un ampio versante scosceso di una montagna dove, a piccole rocce, si alternano gli ultimi pascoli ad una quota di circa 2.000-2.400 metri.

Prova primaverile SABI su starne. Greto del Nure, primi anni ’70. Dalla sinistra: Gaetano Ricci con Pedro, Rino Vigo, Giuseppe Colombo Manfroni con Gea delle Forre.

Lasciato a malincuore il mio letto mi incamminai a notte fonda per raggiungere il luogo di caccia. Dopo circa due ore di marcia nell’oscurità raggiunsi una piccola baita dove attesi l’alba riscaldandomi davanti a un bel fuoco. Avevo con me la giovanissima Gea della Forre, una bella cucciolona bianco-arancio molto promettente, ma che non avevo ancora provato nella caccia alle alte quote.

Camminai tutta la mattinata senza un attimo di sosta ed era un piacere seguire la cagnetta che dimostrava grande avidità e intelligenza, svolgeva una cerca molto ampia alternando brevi tempi di galoppo a un trotto serrato e velocissimo e batteva molto bene il terreno senza lasciare zone inesplorate; non ebbe mai una incertezza o un rallentamento nell’azione e la sua canna nasale era sempre protesa alla ricerca del vento e della agognata emanazione.

Quasi senza accorgermene mi trovai molto lontano dalla baita dove avevo lasciato lo zaino coi viveri, il sole picchiava forte e alla stanchezza cominciava ad accompagnarsi una notevole fame. Decisi di interrompere la caccia anche per non sottoporre ad un eccessivo strapazzo la giovane cagna e ritornai sui miei passi. Per rientrare alla base dovetti percorrere un lunghissimo sentiero a mezza costa, il caldo era soffocante e, madido di sudore, procedevo molto lentamente con il fucile in spalla, sfiduciato per non avere incontrato durante tutta la mattinata nemmeno un capo di selvaggina.

Gea delle Forre
Gea delle Forre di Giuseppe Colombo Manfroni

Il mio stato d’animo sembrava comunicarsi al cane che, stanchissimo, procedeva sul sentiero di qualche metro con la lingua penzoloni e si fermava di tanto in tanto per vedere se per caso il suo padrone si fosse sciolto ai raggi del sole! Pensavo che la giornata di caccia poteva considerarsi definitivamente conclusa con un colossale «cappotto» e non avevo più nemmeno la forza di comandare il “dietro” alla mia bracca che, apparentemente, sembrava essersi dimenticata della selvaggina e dei miei insegnamenti. Tutt’a un tratto vidi Geavolgere la bella testa sulla destra e sollevare le sue grandi orecchie, cambiò improvvisamente espressione e senza ulteriori esitazioni iniziò una splendida filata che la portò fin presso a una piccola roccia dove si irrigidi in ferma.

Io che avevo la vista offuscata per la stanchezza per il gran caldo, al primo momento credetti a un miraggio di caccia alpina; finalmente mi ricordai di avere anche un fucile e raggiunsi rapidamente una posizione che mi offriva buone possibilità per il tiro. Il selvatico reggeva molto bene la ferma e non aveva alcuna intenzione di palesarsi. Dopo alcuni minuti, che a me parvero un’eternità, frullò, come avevo previsto, una splendida coturnice isolata che colsi di prima canna. Fu un colpo inaspettato e mi sentivo particolarmente soddisfatto per la bella azione della cagna che, sebbene fosse stanca e accaldata, seppe cogliere ugualmente la sottile emanazione del selvatico e benché questo si fosse rifugiato in un luogo recondito e quasi inaccessibile lo rintracciò subito puntandolo con sicurezza.

Heros Gea delle Forre di Giuseppe Colombo Manfroni

Questo episodio serve a dimostrare come il bracco italiano, anche nelle situazioni più disagiate, possa concludere con profitto azioni che fa solamente un cane dotato di grande equilibrio psichico, intelligenza e soprattutto avidità d’incontro con la selvaggina.

Le difficoltà della caccia in altura

Tutti sanno che nella caccia alpina, sia per l’irregolarità del terreno come per il continuo mutare di direzione e intensità delle correnti d’aria, è pressoché impossibile cacciare a buon vento. Il cane perciò non può eseguire la cerca incrociata così come è stata codificata dagli inglesi e che molti cinofili nostrani vorrebbero ingiustamente imporre anche alle nostre razze che, invece, per il loro temperamento e il sistema di caccia fatto anche di frequenti e lunghe filate, non potranno mai eseguire senza pregiudicare il rendimento del carniere.

Gea delle Forre

Il pointer, meraviglioso dominatore delle grandi estensioni, si adatta bene in montagna solo sui vasti e regolari altipiani dove può esplicare tutta la sua velocità, ma nei terreni scoscesi e nel bosco deve ridurre molto la sua azione e solo i soggetti perfettamente addestrati e i meno focosi sono idonei a questa caccia, ma io li considero dei cani sprecati perché a poco a poco finiscono per perdere le caratteristiche più tipiche della razza e si riducono a cacciare come i continentali.

Il bracco italiano non ha bisogno di alcun addestramento particolare per questa caccia

Il bracco italiano invece non ha bisogno di alcun addestramento particolare e con la massima naturalezza sa adattarsi alle mutevoli condizioni del terreno, procede in cerca ordinata con costanza e regolarità e senza perdere la calma va a cercare il vento e si porta in prossimità del selvatico con passo felpato senza metterlo in allarme; il cacciatore avrà così tutto il tempo per prepararsi al tiro senza dover fare delle corse mozza-fiato e molto difficilmente la selvaggina gli si involerà fuori dalla portata del fucile.

caccia di montagna con il bracco italiano

La bella testa del bracco italiano, che ha il profilo superiore convessilineo, è molto sviluppata nella regione frontale e il grande tartufo innestato sulla lunga canna nasale è tenuto in continuo movimento pronto a captare la più sottile emanazione. Queste caratteristiche anatomiche sono la prova esteriore della grande potenza olfattiva del bracco.

Una cerca molto più estesa di quel che si crede

Quando vedo i miei cani cacciare con la testa alta li immagino dotati di un prodigioso radar con ampio raggio d’azione al quale nessun selvatico può sottrarsi. Non è raro vederli compiere delle filate di cento e più metri e cadere in ferma a grande distanza. È chiaro come con tali mezzi olfattivi la cerca del bracco risulti molto più estesa di quanto possa sembrare ad alcuni suoi “contestatori”.

Se alla grande potenza olfattiva aggiungiamo il carattere calmo, la prudenza e il collegamento col cacciatore (che potrà lasciare a casa quei fischietti da capostazione che servono soltanto a far partire la selvaggina a mo’ di direttissimi) ci è facile comprendere come con il bracco italiano si possano praticare con profitto anche quelle cacce di montagna nelle quali è sconsigliato dai più il cane da ferma.

Gaetano Ricci con Pedro. Anni ’60.

Mi riferisco alla caccia del gallo cedrone e del francolino di monte. È noto come questi selvatici sospettosissimi usino mille astuzie per sottrarsi al cacciatore: al minimo rumore essi si involano e si imbroccano mimetizzandosi in un modo incredibile tra i rami degli abeti, oppure (soprattutto il francolino) si mettono a pedonare velocissimi nel folto lasciando il povero nembrotto con un palmo di naso.

Solo con un cane che sappia cercare guidato esclusivamente dal cenno della mano e non perda la testa sulla forte emanazione che hanno questi selvatici, mettendo in subbuglio tutta la foresta, ci si potrà portare a tiro di questi bellissimi tetraonidi. Non posso chiudere queste note senza prima aver parlato del riporto del bracco italiano, includendo in questa parola anche la delicata fase del recupero che è essenziale in un cane da montagna. Dirò solo che da quando uso i bracchi italiani nella caccia alpina non mi è mai capitato di perdere un selvatico ucciso e anzi ne ricuperai diversi che credevo di non aver nemmeno ferito.

Dalla rivista «Diana» n. 14 del 1969

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